Idee, progetti, investimenti, l’Italia digitale in fermento
Idee, progetti, investimenti, l’Italia digitale in fermento
Report nazionali e internazionali certificano una insospettata vitalità hi-tech del Belpaese. Secondo la classifica del World Economic Forum lo Stivale è nel gruppo dei Paesi più innovatori. Merito della scossa data dal Piano Impresa 4.0 ma anche della spesa delle Pmi. Siamo arrivati in ritardo rispetto ad altri grandi Paesi sulla quarta rivoluzione industriale, abbiamo una Pubblica Amministrazione che fatica ad evolversi tecnologicamente e scontiamo un gap importante tra domanda e offerta di competenze digitali. Ma siamo sicuri che l’Italia 4.0 se la passi davvero così male come spesso si sente ripetere? Scorrendo e incrociando alcuni rapporti nazionali e internazionale presentati nelle ultime settimane, qualche dubbio dovrebbe almeno venire. Se non altro perché, seppur minimo, un fermento digitale si intravede. A fare rumore è stata soprattutto la classifica 2018 della competitività globale stilata dal World Economic Forum, ribattezzata quest’anno “Global Competitiveness Index 4.0” in virtù di nuovi indicatori che monitorano l’andamento della quarta rivoluzione industriale.
Rivoluzione a cui gran parte dell’economia globale non appare ancora preparata: 103 dei 140 Paesi esaminati non raggiungono la sufficienza nella capacità di innovare. Un po’ a sorpresa, nei 37 Paesi pronti figura l’Italia che si piazza al 22° posto per capacità innovativa, grazie ad alcune performance non indifferenti. Oltre che per la bontà di fattori non strettamente legati all’innovazione, come la longevità della popolazione o le dimensioni del mercato, il nostro Paese si posiziona infatti nella top ten globale in termini di eccellenza dei distretti (4° posto), pubblicazioni scientifiche (7°) e qualità delle istituzioni di ricerca (9°). Altra notizia positiva è la presenza di ampi margini di miglioramento: l’Italia, suggeriscono gli analisti del World Economic Forum, dovrebbe ulteriormente espandere l’adozione di tecnologie dell’informazione e della comunicazione e accelerare sulla modernizzazione della PA. Mentre il settore privato dovrebbe essere più aperto a nuovi modelli di business e idee dirompenti, assumendo un atteggiamento più propenso all’assunzione di rischi. Sicuramente la debole ripresa economica italiana post-recessione non ha favorito un approccio particolarmente aggressivo sul fronte dell’innovazione. Quando c’è da stringere la cinghia e tagliare i costi, si tende sempre a partire dal superfluo.
E se la tecnologia è percepita come un mero costo se non quasi come uno sfizio, e non come un investimento, l’innovazione ci mette poco a finire nella mischia dei tagli. La sensibilità degli imprenditori su questo punto appare però cambiata, anche grazie all’effetto innesco del cosiddetto Piano Calenda lanciato a gennaio 2017. Iniziativa su cui il Governo M5S-Lega si appresta a rimettere mano, con un approccio che sembra però virare verso un depotenziamento. Secondo le ultime indiscrezioni, infatti, allo studio ci sarebbero una generale rimodulazione al ribasso degli incentivi e l’eliminazione del credito d’imposta per la formazione 4.0. A frenare la propensione agli investimenti digitali potrebbe essere anche il contesto generale che, negli ultimi giorni, non ha lanciato segnali confortanti. Nel terzo trimestre 2018, rileva la stima preliminare dell’Istat, la dinamica dell’economia italiana è infatti risultata stagnante, segnando una pausa nella tendenza espansiva in atto da oltre tre anni. Indicativo il rallentamento dell’industria, frenata da una “perdurante debolezza” che fa seguito a una fase di intensa espansione.
Particolarmente interessato a capire le carte 4.0 tolte o aggiunte dal Governo giallo-verde è naturalmente il mercato digitale italiano, che continua invece a vivere una fase piuttosto positiva. La fotografia annuale scattata da Anitec-Assinform racconta infatti di un ritmo di crescita in aumento: dopo aver toccato i 68,7 miliardi nel 2017 (+2,3% rispetto al 2016), l’insieme di servizi, software e soluzioni Ict, dispositivi e sistemi tecnologici, servizi di rete e contenuti digitali, è destinato a crescere in progressione da qui al 2020 (+2,7% ogni anno fino a quota 74,5 miliardi). Incremento che riguarderà tutti i settori, tranne la PA. Della corsa fa e farà parte anche il segmento dell’industria 4.0, arrivato a valere 2,2 miliardi di euro nel 2017 grazie a una crescita del 19,3% in 12 mesi. Ritmo confermato anche per i prossimi anni: gli investimenti in tecnologie 4.0 sfioreranno i 3,7 miliardi di euro nel 2020, toccando un tasso di aumento annuale del 19,2%. Sotto questo punto di vista, sottolineano gli analisti di Anitec-Assinform, andrebbe sostenuto il piano Impresa 4.0.
Che può dare ancora tanto: stimolare oltre 10 miliardi di euro di maggiori investimenti privati (non solo sulle tecnologie digita-li), sostenere un aumento di 11 miliardi nella spesa in ricerca e sviluppo e favorire la formazione di 200mila studenti e 3mila manager in due anni. Sulle competenze digitali si stanno da tempo focalizzando moltissime imprese, come dimostrano le ultime rilevazioni di Unioncamere. Solo lo scorso anno, su oltre 4 milioni di ricerche di personale programmate dalle aziende, il 34% prevedeva la capacità di gestire e applicare tecnologie 4.0. Sul fronte della formazione interna, si segnala invece un certo ritardo: solo il 30% di imprese italiane ha già svolto o intende avviare nei prossimi 12 mesi dei percorsi formativi ad hoc sul digitale. Chi si è già mosso sulla riqualificazione, lo ha fatto concentrandosi principalmente sulla gestione dei dati (54% dei casi). Il tema delle competenze digitali sta interessando anche le piccole e medie imprese. Scorrendo i numeri dell’ultimo osservatorio firmato Mecspe, la fiera internazionale delle tecnologie per l’innovazione organizzata da Senaf, le Pmi non solo sono intenzionate a confermare gli investimenti in tecnologie abilitanti (cybersecurity, cloud, robotica, big data, IoT e altro). Ma hanno anche ben chiari i profili di cui avranno bisogno da qui al 2030: dall’ingegnere robotico agli specialisti dei dati, passando per i programmatori di intelligenze artificiali. Professionalità che saranno ricercate appoggiandosi soprattutto ad agenzie del lavoro, università e istituti tecnici.
(articolo di Andrea Frollà per Repubblica.it)